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Solo Biasso: tra strada, poesia e verità

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Con ”Sulla Strada”, il suo primo album solista, Solo Biasso firma un’opera cruda e sincera che affonda le radici nella tradizione boom bap, ma guarda con profondità al presente, alle solitudini e alle connessioni che ci definiscono. Il titolo omaggia Jack Kerouac, ma diventa anche metafora di un percorso artistico e umano costruito passo dopo passo, tra Roma, le amicizie, la musica, e una costante tensione verso il senso.
In questa lunga chiacchierata con Honiro, Solo Biasso racconta il cuore del disco: le influenze che lo hanno formato, i luoghi e le persone che lo hanno ispirato, l’importanza dell’intimità creativa e il valore del collettivo. Ne emerge un ritratto lucido e appassionato di un artista che non ha paura di stare “sulla strada”, né di raccontarla.


Il titolo del tuo album, Sulla Strada, richiama il celebre romanzo di Jack Kerouac. Cosa ti ha spinto a scegliere questo titolo e come si collega al tuo percorso artistico?


Il titolo ha almeno due origini: la prima, come dici tu, rimanda al famoso romanzo di Kerouac. Sulla Strada è forse il primo libro di “contro-cultura” che ho letto in vita mia, intorno ai 14-15 anni. Un romanzo scritto su un unico rotolo di carta lungo 36 metri, proprio per essere pensato a tutti gli effetti come una strada. Una strada, metaforica e reale, che allontana il protagonista dalla staticità della sua vita borghese proiettandolo in una dimensione di libertà apparentemente senza limiti. La strada percorsa dal protagonista è una specie di deserto mistico che diventa simbolo di tutto ciò che “sfugge” al controllo, un viaggio iniziatico che ha come solo scopo quello di non fissare mai una meta. Un annetto fa, durante un trasloco, mi è capitato di ritrovarlo e rileggerlo dopo quindici anni, ma nel farlo ho provato una sensazione di nausea, perché in qualche modo ci ho trovato dentro la stessa spasmodica e individuale ricerca di senso della mia generazione — ma soprattutto la stessa solitudine. Una fuga da un capitalismo ancora più estremo che in realtà rimane impigliata nello stesso verbo capitalista: “Solo da soli ci si può salvare”. Il secondo motivo per cui ho scelto questo titolo deriva invece da tutta una serie di coincidenze, una su tutte la collaborazione con Unblasfemo, unico feat. del progetto. Quando ci siamo conosciuti avevo da poco riletto il libro, e parlando del suo nome d’arte abbiamo scoperto di avere in comune questa passione per De André, e in particolare per l’album Non all’amore, né al denaro né al cielo, a cui si ispira il nome Unblasfemo. Parlando di quel disco, notavamo quanto il tema della strada e della marginalità accomunasse il rap e un certo tipo di canzone italiana. Così ci siamo detti di provare a creare un ponte tra il rap e uno dei pezzi più sperimentali — e, se vogliamo, “street” — che ha mai fatto De André: Un Ottico. In quel pezzo c’è una frase: “Vedo gli amici ancora SULLA STRADA, loro non hanno fretta.” Una frase che ho scritto a pennarello su ogni muro di ogni casa dove ho abitato e che per me simboleggia il valore del tempo e dell’amicizia. Come Kerouac e De André, la strada che ho voluto raccontare è innanzitutto un simbolo: un simbolo legato al gioco, alla libertà, allo scorrere delle cose e del tempo. Stare sulla strada è diverso dal camminare per strada: implica già non avere un controllo, come se fossero la strada e le cose a scorrere attraverso di te — ed è questo che fa un rapper quando fa rivivere in musica le proprie strade.
In che modo la scena rap romana ha influenzato la tua musica e la tua crescita come artista?
Da un lato penso che, nonostante abbia vissuto tutta la mia vita qui, ho davvero poco di romano: con padre brianzolo e madre di origine sarda ho masticato pochissimo accento e cultura popolare romana. Ma il rap ha compensato parecchio. Quello che ho sempre apprezzato della scena romana è il cosiddetto “cuore + cervello”: un tipo di rap senza fronzoli che mira sempre alla sostanza e mette la tecnica esclusivamente a servizio di essa. Se la cifra per definire un rapper forte all’epoca era la propria autenticità, i rapper romani erano davvero i più forti, per il senso di missione che mettevano nella penna e al microfono.
Penso a gente come Primo, Danno, più tardi Rancore e Noyz. Ho vissuto tante fasi e tante “chiuse”: il Truceklan alle medie, l’Xtream Team, i Cor Veleno e Rancore al liceo. Il mio quasi coetaneo Ketama più tardi. Tutti artisti di cui mastico a memoria l’intera discografia e a cui ho cercato di rubare ognuno qualcosa. Mi piace pensare la musica, e in particolare il rap, come il libro di Kerouac: un unico manoscritto infinito. Il rap, attraverso l’arte del campionamento, della citazione e della fusione di generi, ti fa calare in questo flusso unico dove tradizione e innovazione dialogano continuamente. Roma, in particolare, è una città fortemente identitaria ma che lascia anche molto spazio alla solitudine e alla ricerca di sè.

Il disco esplora temi di solitudine e crescita personale. Come hai affrontato questi temi nel processo creativo?


Come scrivo nel secondo pezzo dell’album, HH: “Ho sempre pensato contro me stesso, rappato contro me stesso”, per dire che quando mi metto su un foglio l’obiettivo non è combattere un nemico immaginario, ma in primis non avere pietà verso me stesso. Solo dopo essermi smontato posso pensare a eventuali nemici esterni. Grazie a Dio sono tutto tranne che una persona sola. Ho una famiglia frammentata ma numerosa, tanti amici veri, una ragazza stupenda. Ma la mia solitudine è sacra, ed ho sempre combattuto per strapparla al rumore dei giudizi altrui, all’eccessiva influenza del branco. Penso che la solitudine sia una condizione costitutiva di ogni persona, perché dentro sé stesso ognuno di noi è solo, e deve rispondere a delle domande che sono solo sue. Il rap è un ottimo mezzo per farci i conti, e per fare il punto con me stesso quando mi sento sopraffatto dal mondo. Quando cresci lasci un mondo protetto: quello della scuola, della famiglia, della comitiva e la solitudine forse si fa sentire di più ma lo stesso si può dire della vecchiaia e dell’infanzia. Esistono tanti tipi di solitudine e bisogna farsene carico perché l’altra faccia della medaglia, quella della compagnia “a tutti i costi”, a me fa molta più paura.


Hai dichiarato che ogni traccia è ispirata a una persona o un luogo specifico. Puoi raccontarci di più su questo approccio?


Quasi ogni traccia che scrivo segue un processo induttivo: parto da un particolare per arrivare ad un universale, a qualcosa che possa rimanere vero nel tempo — e magari non solo per me.
La passione per il rap mi ha portato da un certo punto in poi a pensare letteralmente in rima, e ad appuntarmi ogni cosa degna di nota che vedo o ascolto per strada, al bar o sulla metro.
Per molto tempo la mia produzione è stata caotica e figlia del mero impulso a scrivere.
Da un po’ di anni a questa parte, invece, scrivo sempre partendo da un tema, da una conversazione, da una frase o un pensiero che mi colpisce particolarmente.
Per fare un esempio concreto: uno dei primi pezzi dell’album, Prima Di Fare Il Cash, è stato scritto qualche giorno dopo che alla mia ragazza è stata sequestrata la patente.
In quei giorni — che sono diventati mesi — questo episodio l’aveva messa parecchio in crisi, facendola sentire limitata e trattata come una specie di criminale.
Quindi ho deciso di scriverle una specie di lettera, che poi è diventata quel pezzo lì.
Il messaggio che volevo imprimere era questo: non dare mai più potere all’autorità di quanto l’autorità se ne possa prendere da sola. Un po’ la stessa cosa che cantava Inoki in Non mi avrete mai: possono prendersi la tua patente, le tue canne, trattarti come un criminale — ma non dargli mai il potere di determinare la tua salute e la tua serenità.

La produzione del disco è caratterizzata da un sound boom bap arricchito da strumenti analogici. Come hai scelto i produttori con cui collaborare e quale atmosfera volevi creare?


Fin da quando ho cominciato ho fatto la scelta di collaborare solo con persone a cui sono legato da rapporti di stima o affetto — meglio se entrambi.
Ma ho aspettato quasi dieci anni prima di incontrare una persona che credesse in me: il primo è stato Dario Castelli, uno dei produttori del disco e mio ex coinquilino, che nel 2019 mi ha presentato Tak, diventato poi il mio socio storico in questi ultimi anni.
Con il tempo la cosa si è allargata ed ho iniziato a lavorare anche con Dario (fondatore del gruppo romano “Sinnerman”), che viene da mondi sonori completamente diversi, che per me all’inizio erano totalmente esoterici. La nostra affiliazione musicale è andata di pari passo allo sviluppo della nostra amicizia. In questo progetto si sono aggiunti anche Dario Migali e Giacomo Nardelli. Con il primo abbiamo già lavorato insieme in una realtà di gruppo che si chiamava Interferenzer, e che rappresenta il mio primo lavoro ufficiale (2020).
Con Nino invece — bassista degli Innacantina Sound, nonché della mia ragazza, anche lei cantante — ci siamo conosciuti quest’anno, ed è stato fondamentale nella direzione sonora di tutto il disco, in veste sia di bassista che di produttore.
Ogni produttore di questo disco rappresenta un’anima e mi ha messo in contatto con un lato diverso di me: Dario con la mia parte più introspettiva e sognante,Tak con la mia autostima generale, nell’essere stato il primo a farmi credere di poter fare seriamente questa cosa; è anche la persona che musicalmente mi conosce forse meglio. Nino con le mie radici “culturali”. Dario Migali con la mia rabbia più vera ed elementare.

Il brano Notti Belle è un omaggio all’amicizia. Come è nato questo pezzo e cosa rappresenta per te?


Questo pezzo nasce nell’autunno 2024, da una poesia di Cesare Pavese che si chiama Lettera a una ragazza. I primi versi riflettono quella che è la sua più grande paura di quel momento, che forse è anche quella di ogni persona che scrive: “Sai qual è il mio terrore? Svegliarmi un giorno e non avere più una poesia per te.” Che per è stato come leggere: “Sai qual è il mio terrore? Svegliarmi un giorno e non avere più l’anima.” Quando l’ho letta, questa frase mi è rimasta impressa per giorni come un monito, e mi ha fatto pensare in un colpo solo ai miei amici, alla mia ragazza, alla mia famiglia. Alle mie “responsabilità” nei loro confronti. Dopo giorni che ci ragionavo, ho iniziato anche io a pensare alle mie paure, e mi è venuto spontaneo canalizzare quei pensieri verso i miei amici d’infanzia che vedo tutte le estati in Sardegna, terra dei miei nonni, con cui tutta la mia famiglia ha un legame molto profondo. Si tratta di una colonia, più che di una comitiva di amici, perché i nostri stessi genitori e nonni erano anche loro amici sin da bambini, e ci hanno concepiti praticamente tutti nello stesso momento.
Ho avuto la fortuna di crescere insieme a loro e di passare estati meravigliose in loro compagnia. Ma, com’è normale, quando si cresce ciò che divide è sempre di più di ciò che unisce, e non è semplice restare vicini quando ognuno ha preso una strada completamente diversa. Notti belle nasce pensando a quei momenti di pura spensieratezza che forse non torneranno mai del tutto, ma sono pur sempre dentro di noi — e ogni tanto vengono risvegliati da una festa, da un momento di unione senza pretese. Quando scrivo cerco sempre di parlare con la parte più intima di me e degli altri, quella che resiste al tempo e alle sovrastrutture.
Ho scritto questo pezzo col cuore, pensando agli scalini del bar dove ancora ci sediamo a fumare, alle sere in macchina girando senza una meta, alle estati da bambini che duravano tre mesi. In poche parole, a quelle “Notti belle senza la brama di arrivare a niente.”


Il tuo nome d’arte, Solo Biasso, riflette un progetto solista. Come concili la solitudine del percorso artistico con la collaborazione con altri artisti?


Per me è importante coltivare entrambe le sfere: quella della solitudine e quella della condivisione. Dalla prima deriva la concentrazione e la ricerca della propria unicità; dalla seconda, il confronto che ti permette di evolvere e di godere di quello che fai. È una banalità, ma credo anche io che la felicità sia tale solo se condivisa. Allo stesso tempo, avere complicità con se stessi e non fluttuare in base al giudizio degli altri, è altrettanto importante.
La mia è sicuramente una musica che nasce dalla solitudine, ma se sono musicalmente cresciuto più negli ultimi due-tre anni che nei primi dieci di pseudo attività, lo devo solo agli incontri che la musica mi ha permesso di fare. Sia nella solitudine che nel branco tutti corriamo il rischio di spersonalizzarci, ed è difficile trovare un equilibrio.
Il mio l’ho cercato restando sempre ai margini di ogni gruppo che ho frequentato, investendo molto nei rapporti individuali — cosa che ancora oggi mi permette di avere più nuclei affettivi, senza mai sentirmi schiacciato su una logica di gruppo.

Guardando al futuro, quali sono i tuoi prossimi progetti musicali e come pensi di evolvere come artista?


A proposito della domanda precedente, posso già dire che rispetto a questo i miei progetti futuri saranno tutti lavori collettivi — e sono già in fase di elaborazione.
Per quanto riguarda la mia evoluzione, mi rendo conto di avere ancora tanti limiti da superare, ma anche di avere l’attitudine giusta per imparare qualcosa di nuovo da ogni persona e situazione che incontro. Non mi spaventa il confronto, la critica, il biasimo del pubblico.
Molto di più l’accondiscendenza, o la gentilezza facile.
Non so in che direzione andrà il mio percorso, sinceramente. La mia evoluzione dipenderà da me, ma soprattutto dagli incontri che farò da qui in avanti.
Da come saprò lasciarmi permeare positivamente da chi ha qualcosa che io non ho — e viceversa. Negli ultimi anni ho iniziato a lavorare con dei pischelli più piccoli, che mi stanno insegnando tantissimo, e con cui ci completiamo a meraviglia. Col tempo mi auguro di condividere anche un po’ più di responsabilità, e smettere di accollarmi tutto da solo. Perché già scrivere un disco è una fatica, ma non è neanche l’1% di quello che poi serve per rendergli giustizia e farlo vivere veramente. L’anno prossimo vedrà la luce anche un disco in duo con Dario Castelli — che sarà una cosa aliena rispetto a tutto quello che ho fatto finora. Ma non anticipo nulla, perché stiamo ancora nel pieno del lavoro.

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Ad ogni gradino ripeti solo ”Gimme More”, il nuovo singolo di Metho in uscita il 10 ottobre

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Ad ogni gradino ripeti solo Gimme More, il nuovo singolo di Metho in uscita il 10 ottobre per Honiro Label. 

Tra ritmiche trip hop e citazionismo in metrica, un chiaro manifesto d’intenti:  se Nas dice the world is yours, Metho risponde ‘’presente’’! Per le infinite scale di Escher che la vita di tutti i giorni ci pone davanti, un passo alla volta, scaliamo non tanto un banale discorso di ‘’successo’’, quanto il senso di rivalsa dietro un passato da cui non abbiamo bisogno di fuggire, ma ricostruire attraverso un presente fatto di sacrifici e trasparenza con se stessi. Il rapper di Corviale si dimostra ancora una volta una giovane promessa che, allo stesso tempo, promette a se stesso non solo di dare sempre di più, ma anche di ricevere e ad ogni ostacolo rispondere solo con gimme more.

’Gimme More’’ per me non è solo un esercizio di stile, ma anche mostrare la mia voglia di prendermi il mondo; uno sguardo personale al passato con un occhio diverso, di chi vuole qualcosa di più. Tengo molto alle citazioni culturali presenti nel brano, che fanno da perfetto contorno ad un immaginario che sarà ancora più trasparente con l’album. Se dovessi dare un colore allo scenario del pezzo, sarebbe il rosa alla Camron per il contrasto che crea con l’atmosfera cupa e downtempo.’’ – ci racconta l’artista.

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FUTURO, i consigli della settimana di Honiro – week #17

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La diciassettesima settimana diventa manifesto del legame non solo con se stessi, ma con ciò che dà motivo di pensare e immaginare la forza e la vivacità del FUTURO. Protagonista della cover digitale la luce dei NAVA.

POKI – NAVA

Tra sperimentazione e suoni elettronici, un inno avanguardistico a non dimenticare la sorgente della propria luce, anche quando il buio penetra nei pensieri più reconditi, il legame con la propria arte, la propria ragione di vita. E, inseguendo quella, il significato delle cose prenda una direzione inedita.

HO FATTO PICCOLI CAMBIAMENTI – VERGOGNA

In un universo distopico, tra chitarre distorte e senso di sconforto che si mescola ad un entusiasmo effimero, è aggrapparsi ai ‘’piccoli cambiamenti’’ che può salvarti per sempre. Per sempre, sì, una parola di difficile pronuncia e digestione, illogica, ma, allo stesso tempo, una meta verso cui dirigersi.

FOGLIE – CHIAMAMIFARO

L’eleganza della semplicità e la poesia delle immagini quotidiane costruiscono un racconto fatto di elementi che compongono il tempo che corre, che diventa difficile seguire sempre con la stessa intensità, con la stessa velocità. Eppure una certezza nella frenesia c’è: trovarsi, nonostante faccia paura.

DIMMI CHE PROVI QUELLO CHE PROVO IO – PRIMA STANZA A DESTRA

Parole e suoni trascendentali che diventano un tutt’uno con il moto emotivo del primo incontro: sguardi in uniche direzioni, occhi magnetici che non vedono la realtà in senso stretto, ma le immagini dei sentimenti. E ‘’dimmi che provi quello che provo io’’, così che il giorno assume un significato diverso.

QUATTROMURA – FEM

Dentro ‘’quattromura’’ si aprono scenari che a volte riescono ad andare oltre, tra pensieri intrusivi e il potere della creatività che riesce ad andare oltre ogni schema precostituito; il tutto nel puro segno della libertà e di quello che riesce a regalarci interiormente.

LA MAGLIA DEI GUNS – ORLANDO

Tra le note delicate quanto energiche e una voce graffiante, la tensione di una storia che non riesce mai a fare il passo in più, ma che è perfetta così com’è. Tra il bisogno di evadere, lasciando alle spalle gli entusiasmi estemporanei, e una leggiadra malinconia, la bellezza del vivere le esperienze nel loro andamento.

OX – PLASTICA

Uno di quei romanzi musicali tascabili che ti aprono le voragini dell’ispirazione, attraverso sonorità fresche e artisti che lasciano il segno, parola per parola. Immagini quotidiane, vivide, che riescono a danzare sulle vibrazioni elettroniche pensando ad un domani come un’estensione del presente.

SCIAMANINN (VIA DI QUA) – MISGA

L’inguaribile ottimismo tra le affascinanti note mediterranee e un tuffo nel passato che sa di espressionismo quanto desiderio di intraprendere un viaggio oltre la nostalgia e la malinconia. In determinati momenti ci abbatte anche la leggerezza, ma a volte basta solo ‘’andare via di qua’’.

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Accettare il proprio destino e riderci sopra: ”Amor Fati”, il primo EP dei Donkeys

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“Accettare il proprio destino e riderci sopra”

È questo il cuore di Amor Fati, il primo EP dei Donkeys, giovane band pop punk della provincia di Roma che porta sul palco un sound fresco, diretto e carico di energia college.
Il titolo, preso in prestito dal concetto filosofico dell’“amore del proprio destino”, diventa per i Donkeys un grido di accettazione e ribellione allo stesso tempo: l’amor fati come voglia di abbracciare le sfide, i cuori spezzati, i sogni universitari e i futuri incerti – con le chitarre distorte e i cori che sanno di amicizia e crescita.
Amor Fati è un viaggio in cui il pop punk si intreccia con storie d’amore, ansie sul domani e la necessità di trasformare la fragilità in energia. È college life che si mescola alla provincia, skate e periferie che si incontrano nei ritornelli da urlare sotto palco.
Con questo primo lavoro, i Donkeys raccontano la loro identità: potenti, ma mai cinici; ironici, ma con un cuore pulsante; punk, ma sempre con lo sguardo rivolto al futuro.
Per chi ama il punk che parla d’amore, di crescita e di orizzonti lontani, Amor Fati è più di un EP: è la colonna sonora di chi sceglie di abbracciare la propria strada, con tutte le sue curve.

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